giovedì 2 febbraio 2012

Ora vi racconto perchè sono matta

Papà era bellissimo. Era bellissima anche mamma.
Mamma divenne vedova di guerra di un uomo che l'amava follemente.
Lui era un cugino della moglie di mio zio, il fratello di mamma.
Abitava a Palazzo San Gervasio, un paese vicino a Venosa, dove mia madre era nata.
Si chiama Domenico, Domenico Candida, commerciava in tessuti insieme a Nonna Pippinella (così la chiamavano) e Nonno Giovanni (mai conosciuto, perché andato in cielo prima che io nascessi) e gestivano un bel negozio ben fornito di stoffe di tutti i tipi.
Mamma, invece, insieme alla nonna Raffaella, gestiva un negozio di scarpe nella piazza principale di Venosa: piazza Orazio Flacco. (Per questo motivo l’avevano soprannominata: Cenzina la scarpara).
Entrambe avevano un grande cuore dal quale sprizzava una tale bontà che, durante la guerra, calzavano e sfamavano i bimbi bisognosi e spesso, pure i grandi. Tutto il paese le amava e le rispettava per la loro dolcezza e generosità.
Mio padre, che molto spesso faceva avanti ed indietro fra il suo paese e Venosa, aveva l’occasione e se non l’aveva, se l’inventava, d’incontrare mia madre e fu così che s'innamorarono.
Perché allora sono MATTA. (?)
Appena dopo il matrimonio, mio padre voleva un figlio maschio per perpetuare il nome della sua famiglia: mamma aveva già due figlie grandicelle.
Mamma, una volta, mi raccontò che, una notte, papà voleva fare l'amore, anche se era ancora un po’”indisposta” e, quindi, si rifiutava. Tanta fu la sua insistenza che cedette.
Era esattamente il due aprile, alle due di notte, quando io fui concepita. Tra focosi amplessi e relativi orgasmi, mio padre che era tutto sovraeccitato, diceva: “Dovrà nascere Giovanni Candida "; doveva essere per forza un maschio.
Ma esattamente nove mesi dopo, il giorno due di dicembre alla stessa ora del concepimento, le due di notte, nacqui io con grande delusione del mio babbo.
Mi hanno riferito, però, che ero talmente bella che egli dimenticasse presto di aver tanto desiderato un figlio maschio.
I miei genitori mi hanno donato tanto amore, mi hanno cresciuto in una campana di vetro, erano affettuosi e protettivi.
Le mie sorelle mi adoravano, ero biondissima e “boccolosa”.
Mia sorella Rosetta, la maggiore, trascorreva ore a pettinarmi, ogni giorno s’inventava una nuova acconciatura: trecce, coda di cavallo, ecc .
Anche se non eravamo ricchi, vestitini e scarpe nuove non mi mancavano mai e mi agghindavano come una bambola.
Il negozio di scarpe era passato in eredità allo zio Alberto e ogni volta che passavamo di là, non ne uscivo senza delle scarpette nuove. Le ricordo ancora: le ballerine dorate, quelle di vernice, quelle bianche.
Mamma mia quanti ricordi mi stanno affiorando!
Soffrivo il mal d’auto, per cui ogni volta che mi portavano dalla nonna a Palazzo San Gervasio era una tortura per me e mia madre che mi vedeva soffrire.
Mia nonna mi amava tanto: ero una bambina modello! Non mi sporcavo mai, ero dolce come il miele e mi lasciavo fare di tutto.
Alcuni piccoli episodi indicativi.

Una Volta accadde che mia nonna nel cambiarmi la mutandina, invece d’infilarmi le gambine una in un buco e l’altra nell’altro, le mise tutte e due nello stesso buco. Mi mise giù, ed io non riuscivo a camminare.
“Mamma mia!” Gridò mia madre. “La bambina zoppica o mio Dio che sarà?” Mi prese subito in braccio, mi appoggiò sul bancone del negozio di mia nonna e sollevandomi il vestitino, si accorse del pasticcio che lei aveva combinato. Un’altra volta invece mi mise le scarpine al contrario ed anche in quell’occasione mia madre si spaventò vedendomi camminare in modo strano. Mamma, ormai, aveva quasi paura a lasciarmi sola con la nonna, ma per farla contenta, ovviamente, continuò a lasciarla da lei.
Inutile dire che la nonna mi viziava esaudendo ogni mio desiderio.  
Oltre al negozio di tessuti mia nonna lei aveva anche un negozio di cristallerie. Provate ad immaginarmi dentro quest’ambiente fantasmagorico ma delicatissimo per la fragilità della merce che vi era in esso.
I miei occhi brillavano come i cristalli che mi attorniavano ed io mi divertivo a spolverarli ed a metterli a “posto”.
Strano ma vero, non ero ancora irrequieta come lo sono diventata dopo, per cui non rompevo nulla neppure le… palle!
Ricordare questi episodi della mia fanciullezza mi emoziona, quindi ora mi asciugo le lacrime e continuerò  presto a raccontarvi di me, se vi fa piacere…
(Ora cerco il mio babbo e poi la metto)

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